La gestione della febbre e l’uso corretto di antipiretici e antinfiammatori

La febbre è generalmente benefica, specie in corso di infezione, rappresentando una (re)azione positiva dell’organismo a un processo in atto. Fanno eccezione contesti clinici specifici, come malattie cardiovascolari, metaboliche, neurologiche e pazienti a rischio, in cui la febbre può essere espressione di patologia, di un aggravamento o riacutizzazione della stessa

di Francesca Morelli

 

L’evidenza clinica non è speculare alla percezione nella “real life”, in contesti ambulatoriali ad esempio o fra i genitori. Alcune survey e l’esperienza quotidiana sul territorio attestano che elevate temperature (38,5°C) si associano nell’opinione comune all’aumentato rischio di eventi avversi, dalle convulsioni alla letalità, facendo della febbre un evento da temere e da combattere ricorrendo in prevalenza all’uso di farmaci.

Ciò a dimostrazione di quanto siano poco note, fino a essere sconosciute, le implicazioni dipendenti dall’uso, dall’abuso e dal misuso di antipiretici per il trattamento degli stati febbrili. Allora quali sono le best practice e le controindicazioni? Sul tema si è discusso nel corso di un Simposio dedicato, organizzato da Angelini Pharma, nell’ambito del 29° Congresso Pediatrico I Pinguini (Firenze, 15-16 Novembre 2024).

Il ruolo della febbre e il suo trattamento

Consensus, Linee guida nazionali e internazionali raccomandano un approccio giudizioso nell’utilizzo degli antipiretici per la gestione della febbre e dell’infiammazione, parte integrante del quadro di alterazioni della temperatura corporea, che possono concorrere a favorire il processo di guarigione. «L’infiammazione nelle fasi iniziali – spiega Luisa Galli, professore Ordinario di Pediatria all’Università degli Studi di Firenze – richiama i leucociti nel sito dell’infezione e attiva la cascata citochinica: un meccanismo importante per contenere l’infezione ed evitare che si dissemini in maniera generalizzata.

Ibuprofene e paracetamolo

Sono le molecole più utilizzate per il controllo degli stati febbrili: occorre conoscerle bene in termini di biodisponibilità, meccanismo d’azione e dosaggio per farne un uso adeguato e appropriato. Partendo dalla classe di appartenenza: ibuprofene è un FANS (Farmaco Antinfiammatorio Non Steroideo), paracetamolo non lo è; un primo importante indicatore del fatto che le due molecole non sono esattamente sovrapponibili.

Ulteriori differenze riguardano la prescrivibilità: il paracetamolo può essere usato fin dalla nascita, a differenza dell’ibuprofene consentito a partire dai 3 mesi di vita. Occorre, inoltre, fare corretta (in)formazione sull’opinione comune che attribuisce superiorità di efficacia a ibuprofene rispetto a paracetamolo, come evidenziato da un Consensus paper fra pediatri, guidato da Mattia Doria1, ma che non trova riscontro nella pratica clinica.

Il paracetamolo è una molecola dose-dipendente, per cui l’efficacia e la durata dell’effetto antipiretico, al dosaggio corretto di 15 mg/kg, risultano maggiori; per contro, con una riduzione di dose a 10mg/kg questi benefici verrebbero persi. «L’utilizzo delle dosi giuste – sottolinea la professoressa Galli – è fondamentale.

Entrambe le molecole hanno una soglia tossica, tuttavia differente, pari a 150mg/kg/die per paracetamolo in caso di dose unica e oltre 100mg/kg/die per ibuprofene. Fondamentale, dunque, è informare il clinico dell’importanza dell’adeguatezza e dell’appropriatezza dei dosaggi somministrabili».

Secondo studi di letteratura su ampi database di segnalazione spontanea di eventi avversi associati all’assunzione delle due molecole, raccolti in un arco temporale di 15 anni (2005-2020), sulla totalità delle 12.223 segnalazioni ricevute, il 26% erano riferite a Ibuprofene e solo il 15% a paracetamolo.

Ulteriori implicazioni

Le infezioni

L’ibuprofene potrebbe avere un ruolo nel facilitare la diffusione di alcune tipologie di infezioni batteriche invasive che spesso conseguono alle infezioni virali. Dati di letteratura recenti dimostrano, ad esempio, che le infezioni pneumococciche invasive sono più frequenti dopo infezioni influenzali o da RSV (virus respiratorio sinciziale), così come si è osservata, un’incidenza maggiore di infezioni invasive da Streptococcus pyogenes.

Infezioni invasive da streptococco possono complicare l’andamento di altre infezioni, tra cui la varicella, dove l’impetiginizzazione dei tessuti molli, può evolvere verso l’invasività causando celluliti o raramente fasciti necrotizzanti o shock tossico streptococcico. In questo contesto, anche se diversi studi (ed esperti) supportano la correlazione tra l’assunzione di ibuprofene e un aumento del rischio di infezioni batteriche nella cute e tessuti molli, è necessaria cautela in attesa di ulteriori studi prospettici appositamente disegnati.

Inoltre, uno studio di un gruppo di otorinolaringoiatri francesi ha rilevato una correlazione tra l’uso di ibupro­fene e un maggiore sviluppo di ascessi paratonsillari e retrofaringei. In risposta a queste evidenze, la Società di Otorinolaringoiatria francese ha emesso raccomandazioni che sconsigliano l’uso di FANS non solo nella varicella, ma anche nelle infezioni gravi, in particolare quelle che interessano il settore testa-collo.

Le polmoniti complicate

Sono recentemente aumentate le diagnosi di polmoniti complicate, in parte correlabili alle migliori opportunità e strumenti di rilevazione. Altri studi dimostrerebbero una correlazione tra l’esposizione a ibuprofene e la polmonite complicata nel bambino con un rapporto dose-effetto, in caso di somministrazione superiore a 78 mg per kg (pari a 3 giorni di somministrazione).

«La responsabilità – specifica la prof.ssa Galli – non può essere attribuita con certezza solo ai FANS e all’inibizione indotta ad esempio sulla flogosi, specie nella fase iniziale in cui gioca un ruolo importante l’immunità innata, potendo favorire così l’insorgenza/progressione dell’infezione batterica. Va considerata, ad esempio, anche l’ipotesi che bambini trattati in partenza con FANS abbiano forme più gravi di malattia.

Uno studio francese che ha selezionato bambini trattati con FANS nelle prime 72 ore indipendentemente dalla progressione di malattia, evidenzierebbe comunque una correlazione con l’uso di FANS, fatto salvo in pazienti in terapia antibiotica concomitante. Ciò ha portato l’Agenzia Francese del Farmaco a raccomandare l’uso del paracetamolo per il trattamento della febbre in caso di infezioni delle alte e basse vie respiratorie e in caso di utilizzo di FANS a prescriverli alla dose più bassa possibile, per il minor tempo possibile, interrompendoli alla scomparsa dei primi sintomi.

Inoltre, EMA (Agenzia europea per i medicinali) raccomanda attenzione circa la possibilità che i FANS possano mascherare alcuni sintomi, dalla febbre ad altri indicatori di sospetta infezione batterica. In conclusione, restano ancora molti punti da chiarire; servono nuovi studi prospettici, multicentrici, che indaghino anche la possibile correlazione tra l’uso di FANS e le infezioni batteriche. La raccomandazione generale resta comunque un uso giudizioso degli antipiretici, educando i genitori a non temere la febbre».

L’impatto nefrologico

Particolare attenzione va prestata all’uso di antipiretici in bambini con ridotto patrimonio nefronico, tra cui prematuri o con basso peso alla nascita, con malattia renale cronica più o meno nota, monorene o disidratati. «Durante il processo febbrile – dichiara il dottor Mattia Parolin, Unità Operativa Complessa (UOC) Nefrologia Pediatrica dell’Azienda Ospedale Università di Padova – la produzione di prostaglandine ha un ruolo chiave nel mantenimento della pressione intraglomerulare e del flusso ematico renale.

Infatti, in caso di riduzione di volume dovuta a gastroenterite o febbre elevata, la pressione di perfusione glomerulare è regolata dall’equilibrio fra la pressione dell’arteriola afferente e di quella efferente al glomerulo. In questi contesti è da preferire il paracetamolo, poiché agisce prevalentemente a livello centrale sulle cicloossigenasi con effetti antipiretici e analgesici, mettendo al riparo da possibili danni renali.

Questi possono invece essere indotti da ibuprofene per la sua azione periferica, che può causare alterazione del flusso ematico renale, riduzione della protezione della mucosa gastrica e della funzionalità piastrinica. «Inoltre – prosegue il dottor Parolin – i FANS sono maggiormente legati alle proteine plasmatiche: un aspetto importante per il profilo nefrologico poiché in pazienti con ipoalbuminemia marcata (sindrome nefrosica all’esordio o durante una ricaduta), l’esposizione a FANS anche a dosaggio terapeutico può favorire l’aumento di quota libera del principio attivo e quindi degli effetti collaterali.

La Società Italiana di Nefrologia Pediatrica raccomanda, inoltre, di evitare l’uso di farmaci nefrotossici, tra cui i FANS, anche in pazienti con monorene congenito, suggerendo il paracetamolo come trattamento di prima linea. «Approccio che è sostenuto anche dalle Linee Guida nazionali e internazionali nella gestione della febbre in bambini prematuri o con basso peso alla nascita. In conclusione, i FANS vanno evitati in bimbi disidratati, in terapia con ACE-inibitori o diuretici concomitanti o affetti da sindrome nefrosica, specie se recidivante e in piccoli con parziale/ridotto patrimonio nefronico».

 

Questo articolo è stato realizzato con il contributo incondizionato di Angelini Pharma S.p.A.

 

Bibliografia

  1. Doria M, Careddu D, Iorio R et al. Paracetamol and Ibuprofen in the Treatment of Fever and Acute Mild-Moderate Pain in Children: Italian Experts’ Consensus Statements. Children (Basel), 2021, 8(10):873. Doi: 10.3390/children8100873.
  2. Parri N, Silvagni D, Chiarugi A et al. Paracetamol and ibuprofen combination for the management of acute mild-to-moderate pain in children: expert consensus using the Nominal Group Technique (NGT). Ital J Pediatr, 2023, 49(1):36. Doi: 10.1186/s13052-023-01445-4